Se è vero che l’attenzione verso i temi della sostenibilità alimentare ha mostrato una tendenza innegabilmente in crescita negli ultimi anni, è altrettanto chiaro che non tutti i settori produttivi sono stati considerati sullo stesso piano da parte dei consumatori; su alcuni più di altri, infatti, sono stati puntati i riflettori.
Tra questi, il settore dell’allevamento ha suscitato in particolar modo uno sguardo di inchiesta da parte dei consumatori, spesso a seguito della pubblicazione di numeri sconfortanti, ma talvolta anche contraddittori, relativi all’impatto dell’agricoltura, della zootecnia, e quindi anche della filiera lattiero casearia, sull’ambiente ed in particolare per quanto attiene alla tematica dei gas serra.
Eppure, i dati dell’Inventario Nazionale 2020 dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) parlano chiaro: in Italia l’agricoltura genera complessivamente il 7,1% delle emissioni totali di gas serra, il 79% delle quali è imputabile all’allevamento, che ha dunque un contributo del 5,6% sul totale delle emissioni di gas serra in Italia (il restante 1,5% è invece da attribuire alle coltivazioni non destinate all’alimentazione animale).
Se si considera questo numero rispetto all’andamento dei dati elaborati dalla Fao a livello mondiale, che nel 2013 destinavano al peso degli allevamenti circa il 14.5% sul totale delle emissioni del pianeta, il sistema italiano risulta alquanto efficiente e il dato è ancora più confortante se si considera che dal 1990 al 2018 si è registrata una riduzione (costante) delle emissioni di Ghg imputabili all’agricoltura in Italia pari al 13% (vedi figura 1, fonte Ispra 2020).
Tale riduzione nel trend nazionale delle emissioni, sia di metano che di protossido di azoto (che rappresentano i principali gas Ghg generati dal sistema degli allevamenti, con un peso rispettivamente pari a 64 e 34%) è da attribuire principalmente al decremento del numero dei capi, delle superfici agricole e dell’utilizzo di fertilizzanti di origine sintetica, ma anche ad una maggiore diffusione delle tecniche di riduzione delle emissioni in stalla e a un miglioramento nella gestione delle deiezioni animali da parte degli allevatori.
Se si considerano poi solo gli allevamenti delle vacche da latte, tale percentuale si riduce ulteriormente, dal momento che questa categoria partecipa circa al 40% agli impatti generati dall’allevamento sulle emissioni di gas serra. Ciò significa che l’impatto della vacca da latte sul totale delle emissioni GHG in Italia gravita intorno al 2,2% (vedi figura 2, fonte Ispra 2020).
Nonostante lo scenario appena presentato, non sarebbe sicuramente corretto limitare l’analisi a questi numeri: è altrettanto doveroso tener presente la partecipazione di altre categorie di impatto (emissioni di ammoniaca, consumo di acqua), mantenere questi numeri sotto osservazione e continuare a indagare le più idonee pratiche di mitigazione del fenomeno. Tuttavia, tali percentuali offrono una nuova luce e spunti di riflessione al settore.
Questo discorso risulta ancor più valido se si prende in considerazione un altro fattore non sempre stimato dagli attuali modelli di valutazione e calcolo dell’impatto ambientale relativo alle produzioni di origine animale, ovvero la capacità del suolo di captare carbonio.
Infatti, i terreni agricoli presentano una notevole capacità di assorbimento e immagazzinamento del carbonio, tali da renderli uno dei fattori potenzialmente chiave nelle strategie di mitigazione degli impatti ambientali della filiera zootecnica e, quindi, anche di quella lattiero casearia, in connessione con la fase agricola relativa alla produzione dei foraggi per l’alimentazione animale.
Però, come sottolineato anche nello studio pubblicato dalla Oxford University Press “Influence of carbon fixation on the mitigation of greenhouse gas emissions from livestock activities in Italy and the achievement of carbon neutrality” (De Vivo, R; Zicarelli, L; 2021), gli standard di valutazione inter- nazionali non considerano la CO2 che viene captata dall’atmosfera attraverso la produzione dei foraggi destinati all’alimentazione delle bovine.
Ciò che emerge nello studio, che ha invece considerato anche tale variabile nei calcoli dell’impronta delle emissioni degli allevamenti in Italia, è che i numeri risultano ovviamente differenti, tanto da mostrare un bilancio potenzialmente positivo tra emissioni e assorbimento di CO2, a favore di quest’ultimo, intorno a circa il 10%. In particolare, secondo la ricerca, il comparto zootecnico genera in Italia un totale di circa 66.222.000 t di CO2 eq., mentre la rimozione dall’atmosfera e, dunque la loro neutralizzazione, è stata stimata intorno a 73.300.000 t di CO2 eq.
Lo stesso risultato è stato inoltre ottenuto dal calcolo del bilancio tra CO2 prodotta e sequestrata in relazione alle attività svolte da un’azienda lattiero-casearia di medie dimensioni (vedi tabella, fonte De Vivo – Zicarelli, 2021). Infine, è ben noto che alcune colture (colture foraggere poliennali, prati pascoli e prati stabili) e alcune pratiche di gestione agricola (lavorazioni minime, mantenimento della copertura vegetale del terreno) favoriscano in misura maggiore lo stock del carbonio nei suoli rispetto ad altri sistemi, potendo dunque avere un peso significativo nelle variazioni del relativo ammontare totale in un’ottica di rendicontazione ambientale.
A ciò si aggiungono i conseguenti benefici per il suolo anche in termini di struttura e fertilità complessiva. La produzione dei foraggi, legata specialmente ad alcune produzioni lattiero-casearie che si mantengono salde a tali pratiche agronomiche, come ad esempio quella del Parmigiano Reggiano, che presenta una tradizione millenaria connessa a sistemi come quelli dei prati stabili e della coltivazione poliennale dell’erba medica, potrebbe dunque dar prova di un bilancio positivo in termini di emissioni di Ghg, o per lo meno ridimensionare notevolmente i numeri che la riguardano.
In conclusione, viene quasi automatico porsi l’interrogativo sul fatto che non solo le considerazioni che sono state fatte negli ultimi anni in relazione alla sostenibilità mostrino alcune grandi lacune in termini di osservazione sul problema, in primis sull’aver a lungo (e talvolta ancora oggi) trascurato alcuni caratteri di sostenibilità economica, sociale, culturale e nutrizionale di tali prodotti sotto inchiesta.
Ma anche se non sia arrivato il momento di comunicare con maggio- re completezza e chiarezza quali sono i reali impatti della filiera del latte in Italia e nel mondo, se il bilancio relativo alle emissioni di gas serra risulti realmente così negativo come è stato a lungo presentato e se non sia logico e razionale integrare nelle stime anche il peso di un fattore chiave come quello del sequestro del carbonio legato a tutta la filiera
Roberta Arciprete
Servizio Marketing del Consorzio Formaggio Parmigiano Reggiano