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È cambiato il paradigma: dall’eccesso alla carenza di latte

Il punto sulla situazione globale: diminuiscono le produzioni, soprattutto in aree come Nuova Zelanda e Nord Europa, ma si mantengono in crescita i consumi. Risultato: c’è meno latte sul mercato di quanto ne serva e questo sta portando a una vera e propria rivoluzione nel settore a livello globale. E l’Italia? Il nuovo scenario potrebbe avere più luci che ombre. Anche per le DOP. Facciamo il punto di tutto questo con Alberto Menghi, economista e ricercatore del CRPA.

Alberto Menghi è un noto economista e ricercatore del CRPA di Reggio Emilia e da tanti anni segue la filiera del latte e tutte le sue dinamiche in Italia e nel mondo. “Eppure – spiega – una situazione analoga a quella che stiamo vivendo in questi ultimissimi tempi non l’ho mai vista, ed è una situazione che non trova alcuna similitudine con situazioni del passato. Si può dire che una rivoluzione è in atto. Anche più di una, probabilmente, perché consolidati paradigmi di mercato stanno venendo meno per effetto di cambiamenti strutturali in aree del mondo direttamente coinvolte negli equilibri della filiera dairy globale. La rapidità in cui tutto sta avvenendo e la profondità degli effetti generati, rendono sicuramente difficile fare previsioni certe, ma alcuni elementi sono ormai chiari. Uno, in particolare, che sintetizza al meglio lo scenario: siamo entrati a livello planetario in una fase di carenza di latte, a fronte di consumi che si mantengono in crescita costante. Una situazione che durerà negli anni e che contribuirà a definire nuovi equilibri”.

Dottor Menghi, come siamo arrivati a questa situazione?

Lo scenario attuale è figlio di situazioni createsi negli anni scorsi, e che la guerra in Ucraina ha soltanto accelerato e reso clamorose. Il punto centrale è quello del costo dell’energia, e segnatamente dei combustibili fossili, come petrolio e gas. Il mondo agricolo si era abituato a una situazione in cui l’energia era a basso costo e che questa situazione potesse durare per un tempo indefinito. Aggiungiamoci gli effetti della pandemia e il blocco generalizzato a livello mondiale, che ha portato a un vero e proprio crollo delle quotazioni del greggio e quindi al rafforzarsi dell’idea che il costo energetico non fosse un problema. Ma con la ripresa post-Covid il prezzo del petrolio ha cominciato a segnare record su record, risalendo presto oltre i 100 dollari al barile, sfiorando i 120 dei nostri giorni. Tutto ciò a comportato una ricaduta sui prezzi per i trasporti, per la produzione di fertilizzanti, per la stessa operatività della aziende agricole. Aggiungiamo poi l’incremento dei costi per i noli marittimi, le difficoltà di movimentazione delle materie prime, l’effetto inevitabile delle leve finanziarie. Ebbene, tutto ciò ha portato nel 2020 e soprattutto nel 2021 a una impennata dei costi nelle aziende da latte. Un incremento dei costi di produzione non accompagnato da un aumento dei prezzi di mercato del latte, che invece si mantenevano sui livelli consueti. Infatti, i bilanci delle aziende da latte del 2021, in tutto il mondo, sono stati estremamente negativi.

Come hanno reagito i produttori?

Questo improvviso rincaro, e la necessità di contenere i danni, ha spinto molte stalle a riformulare rapidamente le razioni e ridurre la spinta produttiva, dato che questa era basata essenzialmente sul maggiore utilizzo di mangimi. Sia per sistemi produttivi basati sul pascolo, che per sistemi produttivi più intensivi con elevato utilizzo di mangimi, sono sempre questi ultimi che vengono utilizzati in quantità maggiori per l’alimentazione delle bovine per dare dei plus di latte ad elevata redditività. Chiaramente, con il balzo dei prezzi di cereali e soia e quindi di maggior costo dei mangimi, questo non era più conveniente. Meno mangimi in razione, quindi, e meno latte messo in vendita.

Prendiamo la Nuova Zelanda, Paese che ha un peso determinante nel fornire ai mercati mondiali polvere di latte a basso costo grazie alle sue elevate produzioni. Basando la produzione sulla sola erba del pascolo o quasi, per ridurre i costi, di colpo la quota di latte in polvere messa sul mercato dalla Nuova Zelanda ha iniziato a ridursi. In questi Paesi inoltre l’alimentazione al pascolo è fortemente condizionata dall’andamento climatico sempre più instabile a causa dei cambiamenti climatici, alimentando incertezza.  Le industrie di trasformazione, specialmente multinazionali, che operano sui mercati globali, si sono trovate così, improvvisamente, prive di un riferimento, dato per scontato, e cioè la possibilità di reperire latte in polvere a basso prezzo, necessario per tutta la gamma delle loro produzioni. Questo latte, semplicemente, non è più garantito, e questa incertezza genera dei processi speculativi di accaparramento per far fronte a possibili carenze di prodotto. Per far fronte alle necessità di approvvigionamento si è dovuto quindi guardare ad altri storici bacini di produzione, ma, anche qui, le cose non erano tanto diverse.

Anche nel Nord Europa?

Certo, anche nel Nord Europa, e questo – vedremo – ha avuto e avrà un effetto sulla situazione italiana. L’impennata di costi per sostenere la produzione di latte in molti Paesi del Nord Europa ha avuto l’effetto di ridurre le produzioni. In Germania negli ultimi 12 mesi la produzione di latte è diminuita dell’1,5%; in Francia dello 0,7%, in Olanda addirittura la riduzione è stata del 2,5%, anche per la messa in campo da parte governativa di rigide misure ambientali che hanno ulteriormente frenato il comparto.

Nel frattempo, in Italia…

In Italia invece si è andati controcorrente: la produzione di latte è aumentata rapidamente e in pochi anni si è passati da un tasso di autosufficienza del 70% circa al 90%. E si comincia a vedere un fatto assolutamente nuovo, che mai si sarebbe potuto immaginare solo alcuni anni fa: il prezzo medio del latte italiano è allineato con quello del Nord Europa e in alcuni casi più basso di quello europeo, quando per anni è valso il contrario, con differenziali anche elevati che portavano al traffico di autocisterne dal nord, specialmente nel periodo estivo, per far fronte alle necessità di prodotti freschi della nostra industria di trasformazione. I dati delle importazioni di latte sfuso in cisterna, dimostrano chiaramente questo cambio epocale: siamo passati da 2 milioni di tonnellate importate nel 2011 alle 500mila tonnellate dello scorso anno. Ormai comprare nel Nord Europa non conviene più: il latte costa troppo e costano troppo le spese di trasporto. Il primo Pase esportatore in Italia è la Slovenia: non tanto per l’aumento delle quantità importate da questo Paese, ma semplicemente sono crollate le importazioni da Francia, Germania e Austria.

Torneremo sulla situazione italiana, ma per definire lo scenario manca ancora il dato sui consumi…

Facciamo un passo indietro: per anni la situazione mondiale era cristallizzata su una sostanziale equivalenza tra quantità di latte prodotta e consumi: sia la prima che i secondi crescevano annualmente del 2-3%. In pratica si poteva aumentare la produzione seguendo i consumi in modo relativamente semplice, senza mai ipotizzare limiti produttivi. Un equilibrio che si rifletteva sui prezzi, che in una situazione di abbondanza di prodotto tendevano al ribasso verso i costi di produzione. Questo meccanismo ha portato al noto trend di riduzione del numero delle stalle e aumento delle dimensioni produttive alla ricerca di un abbassamento dei costi di produzione basato sulle economie di scala. Questo equilibrio si è rotto bruscamente con la diminuzione della produzione (anche per effetto di politiche ambientali di contenimento in Paesi chiave come Nuova Zelanda e Olanda), mentre la domanda di latte e derivati continua a crescere nella misura consueta, spinta soprattutto dai Paesi emergenti.

Scarsa offerta e domanda costante ha portato ad una impennata delle quotazioni mondiali di latte che ad aprile 2022 hanno toccato secondo le stime IFCN i 63 $ ogni 100 kg di latte. Un livello mai toccato in precedenza, considerando che nel 2008/2009 eravamo intorno ai 20 $ ogni 100 kg di latte.

In genere le quotazioni sui mercati mondiali tendono a precedere le variazioni sui mercati nazionali

Dal generale al particolare: in Italia questo come si è tradotto?

L’impennata del prezzo del latte spot è emblematica di questa corsa al latte in un contesto non di surplus ma di carenza e di venuta meno dei canali classici di approvvigionamento dal Nord Europa. C’è un aspetto caratteristico italiano da sottolineare: la presenza di una industria di trasformazione diffusa, tecnologica, capace, innovativa, che non ha eguali nel mondo. È un patrimonio unico, che produce grandi volumi e che per questo ha bisogno di molto latte. Una necessità che diventa impellente nei mesi estivi, quando massima è la domanda di prodotti freschi, aiutata anche dalla spinta del turismo. Serve latte per fare mozzarelle, stracchini, crescenze, tutte referenze, tra l’altro, ad elevata remunerazione e fondamentali per i bilanci delle industrie. E se il latte non c’è dove lo si andava a prendere normalmente si deve giocoforza prenderlo dove c’è, in Italia. È in questa ottica che vanno letti i comportamenti degli ultimi mesi: la “caccia” alle stalle migliori per avere latte, gli aumenti di prezzo unilaterali: di colpo quello che è stato sempre l’anello debole è diventato molto più forte, anche se la tradizionale divisione e polverizzazione del mondo produttivo rischia di frenare la potenzialità positiva di questa situazione. Il latte italiano acquisisce ora una valenza nuova per l’industria: al di là di ogni elemento legato alla qualità, il suo valore strategico diventa quello delle disponibilità. Avere stalle nazionali è una sicurezza di prodotto disponibile per l’industria di trasformazione, quella sicurezza che non c’è più per gli acquisti esteri. Da non dimenticare inoltre che solo nel 2020 l’Italia ha iniziato ad avere una bilancia commerciale positiva per il settore lattiero caseario, prima del 2020 infatti il valore dei prodotti importati era sempre superiore a quello dei prodotti esportati. Questo elemento rafforza di molto il peso di questo settore.

Tutto ciò che riflesso ha avuto sul mondo delle Dop?

Il mondo del latte è un meccanismo mondiale di vasi comunicanti, anche le Dop, ovviamente, hanno risentito di questa situazione e i prossimi mesi ci diranno se anche qui assisteremo a nuovi equilibri rispetto al passato. Prendiamo i dati produttivi di Grana Padano e Parmigiano Reggiano. Mentre in passato si assisteva a consistenti aumenti di produzione anno su anno, le cose stanno cambiando. Per il Grana Padano si assisteva a una crescita di produzione annua con punte fino al 10%, nel 2021 si è avuto il primo rallentamento della produzione che nei primi cinque mesi del 2022 si è tradotto in un calo del 3,3%. Per il Parmigiano Reggiano la situazione è abbastanza simile la crescita annua in genere sostenuta ha registrato un timido +1% nel primi 5 mesi dell’anno. Cosa significa? Che parte del latte che prima andava a grana nei circuiti Dop ha trovato altre destinazioni, ed è facile capire quali: produzione di prodotti freschi. Fortemente richiesto – e ben pagato – dall’industria che ha estremamente bisogno di latte. Basti pensare che il latte spot a maggio ha toccato punte di 55€ /100 kg di latte. Anche i prezzi, soprattutto del Grana Padano, dato che per il Parmigiano Reggiano erano già molto alti da alcuni anni, fotografano questa situazione di allerta per le quantità di prodotto sul mercato: prezzi di oltre 8 euro/kg sarebbero stati impensabili solo alcuni anni fa.

C’è però l’incognita dei consumi e della loro tenuta considerando il contrarsi delle possibilità di acquisto delle famiglie italiane.

Certo, questo è da considerare e monitorare. Tuttavia c’è il dato assai positivo delle esportazioni di formaggi italiani, che nel 2021 è cresciuto del 10%. Un valore eccellente, considerando che si partiva da una quantità già estremamente alta, di circa 500mila tonnellate.

Cambierà qualcosa nelle scelte di stalla? E quali ne beneficeranno di più?

Sicuramente questo bisogno di latte fresco da parte dell’industria e la necessità di averlo da stalle italiane crea scenari nuovi e vantaggiosi per i produttori di latte dei circuiti Dop. Se in passato non c’era altra via che contenere la produzione o splafonare, e pagare le multe conseguenti, ora c’è concretamente la via della vendita di una quota di latte per la trasformazione in prodotti freschi, a prezzi estremamente interessanti e, dettaglio non da poco, che arrivano praticamente subito rispetto ai tempi lunghi classici delle Dop. Assicurando così un flusso di cassa interessante. Ovviamente non tutte le stalle sono nella stessa situazione di partenza: la situazione è molto favorevole per quelle aziende in equilibrio con la terra e in grado di produrre la maggior quantità possibile di alimenti per la stalla, risentendo poco degli scossoni sui mercati. Diversamente, la situazione è più critica per quelle stalle più esposte agli acquisti esterni, che rischiano di perdere per l’incremento del costo di produzione i benefici dei maggiori prezzi del latte.

Il tema principale resta la capacità da parte degli allevatori di ottenere la giusta remunerazione dei loro prodotti. Questo nel mondo agricolo si ottiene solo con l’aggregazione dell’offerta, nelle diverse forme, che resta uno storico punto debole del mondo allevatoriale italiano.

Tutti questi cambiamenti dovranno incrociarsi con il tema ambientale e delle politiche che verranno messe in atto dai singoli Paesi per ridurre le emissioni di CO2. In un quadro di incertezza per la sicurezza alimentare dovremo porci il grande punto interrogativo di come viene prodotta la maggior parte del latte in Paesi emergenti ancora non attivi sul tema della riduzione delle emissioni. Questo pone un enorme problema di competitività ed evidenzia i limiti della globalizzazione alimentare non necessariamente legata alla globalizzazione ambientale.

Alberto Menghi.