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Facciamo il punto sulla mangimistica nazionale 

Con Lea Pallaroni, Direttore generale di Assalzoo facciamo il punto della situazione della mangimistica nazionale, parte e fondamento della filiera agroalimentare italiana.

Non è certo una situazione facile per il mondo zootecnico, con il costo dell’alimentazione, dei fertilizzanti, dell’energia che si sono impennati e la preoccupazione che, oltre ai prezzi alti, potrebbe esserci anche il rischio della stessa disponibilità di foraggi e materie prime in quantità adeguate. I mercati instabili, le vicende internazionali, la siccità hanno pesato, pesano e peseranno anche in futuro, facendo sentire i loro effetti. Sono problemi che toccano direttamente anche la l’industria mangimistica, stretta tra la volontà di garantire quantità e qualità consuete agli allevatori e gli scenari profondamente mutati. Ma parlare di industria mangimistica solo in termini di produzione di mangimi per le aziende sta diventando un po’ riduttivo: “Con i servizi crescenti forniti alle stalle, infatti, i mangimisti diventano dei veri e propri partner degli allevatori, aiutando a trasferire a valle, conoscenza, innovazione e soprattutto assistenza diretta agli allevatori”, sottolinea la dr.ssa Lea Pallaroni, Direttore generale di Assalzoo. Con lei facciamo il punto della situazione di un settore, quello della mangimistica nazionale, che è parte e fondamento della filiera agroalimentare italiana, per quantità e qualità di ciò che ogni giorno dalle fabbriche arriva, sfuso o in sacchi, nelle stalle.

Dr.ssa Pallaroni, partiamo dalle materie prime. La situazione attuale consente, oltre a una valutazione degli ultimi mesi, anche uno sguardo al prossimo futuro con qualche certezza

A marzo abbiamo vissuto un momento molto difficile: il blocco delle esportazioni da Ucraina e Russia e il concomitante annuncio della chiusura dell’Ungheria hanno determinato un momento di grossa difficoltà e forte preoccupazione per la nostra sicurezza di approvvigionamento. È oramai un dato noto che il settore mangimistico nazionale, così come l’alimentare in genere, dipende dalle importazioni per quasi il 60%. Per un paio di settimane abbiamo avuto difficoltà a reperire le materie prime necessarie, con conseguente preoccupazione e rallentamenti nelle forniture di mangimi.

La situazione attualmente è più stabile, ma l’andamento dei raccolti del mais non fa presagire nulla di positivo; infatti, la siccità, che ha colpito non solo l’Italia ma molte parti d’Europa, fa prevedere una preoccupante diminuzione dei raccolti. Ci apprestiamo a vivere una situazione di scarsità di risorse, che oltre ad un inevitabile aumento dei prezzi ci farà ampliare l’area di approvvigionamento guardando, anche per il mais, oltreoceano.

Ecco, appunto: il mais. Così importante per tutta la filiera e ovviamente per l’industria mangimistica, eppure sempre meno prodotto in Italia. Quali possibilità vede realisticamente per invertire il trend?

Il mais rappresenta la principale fonte energetica/carboidrati per la mangimistica. L’Italia, che nel 2006 era autosufficiente, ha registrato un forte calo della superficie coltivata a mais. Si pensi che in 15 anni abbiamo perso la metà delle superfici coltivate a mais, oltre 550.000 ettari: una superficie pari all’intera regione Liguria. A ciò si aggiunga che una parte degli ettari coltivati sono destinati ad uso energetico.

Il mais è ancor più importante per le DOP se consideriamo che, avvalendosi della deroga, almeno il 50% delle materie prime utilizzate per alimentare le bovine deve provenire dall’areale di produzione. Il mais è una materia prima di uso consolidato e ha una buona resa ad ettaro. Assalzoo ha cercato di spingere un’inversione del trend promuovendo l’”Accordo mais”, lavorando a livello ministeriale, abbiamo ottenuto l’insediamento del “tavolo mais” e l’introduzione del sostegno a ettaro per il mais coltivato entro i contratti di filiera.

Un incentivo che, purtroppo, non è bastato per invertire il trend. Ci vuole di più soprattutto alla luce degli aumenti dei costi dei fattori produttivi, come ad esempio fertilizzanti e gasolio. Tuttavia, non è possibile né lungimirante pensare ad un sistema di sovvenzioni; l’obiettivo deve essere quello di mettere in grado gli agricoltori di aumentare le rese ad ettaro dando loro la possibilità di accedere all’innovazione: maggiore efficienza e maggiore remunerazione per gli agricoltori oltre a ridurre il deficit produttivo nazionale.

Fin qui il mais. Ma anche sui proteici la dipendenza dalle importazioni è un fattore critico. Lei crede che ci possono essere alternative nazionali praticabili per ridurre la dipendenza dalla importazione di soia?

Su questo aspetto bisogna considerare un fattore importante: la Superficie Agricola Utilizzata è costante, se non in diminuzione: occorre valutare attentamente come indirizzare le semine e l’aumento dei proteici non può che portare ad una diminuzione di altre colture. Attualmente l’Italia è la prima produttrice europea di soia, situazione che ha ridotto la nostra dipendenza dall’estero da punte del 97% all’attuale 85%. Aumenti della produzione possono concorrere a ridurre il deficit produttivo, ma risulta utopistico pensare che potremmo arrivare all’autosufficienza. Se il pensiero va alle altre leguminose, vale lo stesso discorso: possono concorrere ad utilizzare terreni marginali e ridurre il nostro deficit, ma occorre tenere ben in mente la differenza di contenuto proteico tra la soia e le altre leguminose.

La filiera zootecnica non ha però solo il problema delle importazioni di materie prime. Sempre più spesso la zootecnia – e, di conseguenza, anche chi “alimenta” la zootecnia come l’industria mangimistica – è accusata i sottrarre materie prime nobili al food. Ebbene, la competizione tra food e feed come si supera, specialmente in tempi di siccità, difficoltà di approvvigionamenti, alti costi, minori raccolti?

La scienza dell’alimentazione animale ci fornisce già tutte le conoscenze per un utilizzo efficiente dei sottoprodotti dell’industria alimentare. Già oggi oltre il 60% delle materie prime utilizzate in una razione non sono prodotti che potrebbero essere utilizzati in alimentazione umana.  Il valore dei sottoprodotti è tale che anche il nuovo regolamento europeo, che definisce il Catalogo delle materie prime, non li definisce più sottoprodotti, ma co-prodotti. Co-prodotti ed ex-prodotti alimentari sono materie prime che da sempre vengono valorizzate dalla mangimistica che riesce a recuperarne il valore nutrizionale per alimentare gli animali.

I limiti maggiori per un maggiore utilizzo di queste materie prime sono i rigidi disciplinari di produzione delle DOP.  Se 40 anni fa utilizzare materie prime adatte all’alimentazione umana per alimentare gli animali nobilitava il prodotto, adesso è uno schema superato; utilizzare e valorizzare i co-prodotti risponde alle nuove priorità di efficienza, economia circolare e sostenibilità ambientale. La norma sanitaria è molto cautelativa pertanto i co-prodotti non rappresentano un rischio, ma un’opportunità. Ora tocca a noi modificare le regole di produzione per aumentare l’efficienza e la sostenibilità della filiera.

Lea Pallaroni.