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Qualità e quantità dei foraggi: il futuro dell’azienda da latte passa da qui

Intervista a Roberto Zaupa, Direttore Ricerca e Sviluppo di Aia – Agricola Italiana Alimentare S.p.A.

La situazione del settore delle materie prime ha talmente tante criticità in questo momento che fare previsioni è azzardato. Tuttavia ci sono alcune certezze: una, sicuramente poco piacevole, è che i costi di alimentazione per le stalle di vacche da latte si manterranno elevati per molto tempo: tutto il 2023 e buona parte del 2024. Questo impone aggiustamenti nella gestione di ogni giorno ma anche nella strategia di conduzione dell’azienda. Con un punto fermo irrinunciabile: servono più foraggi, di migliore qualità e si deve ridurre la dipendenza dal mercato per la frazione proteica. Con ottimi foraggi anche il mangime darà il meglio. A sottolinearlo è il dr. Roberto Zaupa, agronomo, Direttore Ricerca e Sviluppo di Aia – Agricola Italiana Alimentare S.p.A.

Dr. Zaupa, partiamo dal mercato delle materie prime. Stiamo assistendo a una impennata dei prezzi mai vista in passato, nemmeno nei picchi più alti…

Se guardiamo un qualunque grafico che riporti l’andamento dei prezzi delle principali materie prime, ma anche dei sottoprodotti, utilizzati per la produzione di mangimi ad uso zootecnico c’è di che restare impressionati dall’impennata di prezzi che si è avuta negli ultimi mesi. Venivamo da un decennio di prezzi costanti e già si vedeva un cambio di direzione emerso durante l’emergenza Covid. Lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, due paesi che pesano molto sui mercati di cereali e girasole, ha innescato la miccia che ha investito tutto il sistema che ha reagito di conseguenza.

Faccio qualche esempio(*), a partire dal mais. A gennaio 2010 si avevano quotazioni nell’ordine dei 150-160 euro/ton. A fine 2010 – inizio 2011 abbiamo registrato il picco, che allora ci sembrava stratosferico, arrivando a 250-260 euro/ton. Successivamente i prezzi sono poi rientrati, stabilizzandosi attorno ai 200-220 euro/tonnellata, anche con cali fini a 160 euro nel 2013. In queste settimane per il mais siamo arrivati ai 380 euro/ton. E questo vale per tutto il resto. Ad esempio 407 euro/ton per il frumento (rispetto a un massimo storico di 300); 385 euro/ton per l’orzo (contro un massimo storico di 283). Stesso andamento per i proteici, con la farina di soia che ha avuto il suo massimo storico di 583 euro/ton che è arrivata a 636, non parliamo del girasole. La questione dei sottoprodotti è poi particolarmente critica e ha persino dell’incredibile: basti pensare al prezzo delle polpe di barbabietola che costano praticamente come il frumento. Qui c’è da registrare l’effetto sui mercati di tutto il nord Africa. I Paesi Arabi per ragioni climatiche hanno avuto problemi con la loro già ridotta produzione foraggera e quindi cercano di compensare acquistando sottoprodotti sul mercato per le necessità delle loro zootecnie rendendone critica la disponibilità.

I prezzi vanno di conseguenza: se guardiamo a medica pellettata, polpe di barbabietola e crusca, componenti molto importanti per i mangimi, vediamo rialzi mai visti. Per la medica pellettata siamo passati da un prezzo stabile per anni di 220-225 euro/ton agli attuali 314 euro/ton; per le polpe di barbabietola siamo attualmente sui 370 euro/ton rispetto a un prodotto che, negli anni, ha avuto come prezzo massimo 250 euro/ton. La crusca segue storicamente l’andamento del frumento, ora ha un prezzo sui 232 euro/ton, ma in passato abbiamo avuto prezzi costanti sui 150-160 euro/ton. Una situazione mai vista.

Cosa dobbiamo aspettarci per i prossimi mesi?

Sicuramente avremo prezzi delle materie prime che si manterranno alti: i contratti futures nei prossimi mesi non mostrano sostanziali cambiamenti. Il quadro generale è poi pieno di incognite che possono avere un effetto diretto sulle quantità dei raccolti e la disponibilità di prodotto. C’è l’andamento della guerra in Ucraina e il suo effetto su semine, raccolti e possibilità effettive di movimentare le merci verso i nostri mercati. Negli Usa si è avuto uno spostamento maggiore nelle scelte degli agricoltori verso il frumento, che si è inserito nel binomio classico mais-soia. In Italia si va verso una minore produzione di mais e una maggiore produzione di soia, che non richiede concimazioni azotate e ha minori necessità di irrigazione. Uno scostamento del 10-12% che, pur lasciando il mais come coltura principale, ne riduce i quantitativi complessivi che saranno disponibili. Sempre in Italia è probabile aspettarsi rese minori per il mais come conseguenza dell’alto costo dei concimi chimici, in primis l’urea, e anche questo peserà sulle rese per ettaro.

Tutta da capire è poi la possibile competizione sulle materie prime tra zootecnica e bioenergie, che già c’era in passato, ma ora rischia di ingigantirsi. Dipenderà anche dal prezzo del gas, ma credo che con certi costi di materie prime e sottoprodotti, se la situazione è critica per la zootecnica lo sia ancora di più per produrre energia.

Al di là dei costi, c’è un possibile problema di disponibilità?

Al momento non vedo questo problema: la merce c’è, a prezzi elevati, ma c’è. Questo però fino a luglio-agosto. Sul dopo è difficile capire quale sarà la situazione. Sono tante le variabili in gioco, come abbiamo visto, e nessuno sa dire con esattezza dopo i prossimi raccolti cosa e quanto ci sarà.

Una prima conclusione, quindi, che diventa anche un punto di partenza per la chiacchierata successiva: nella filiera zootecnica i costi alimentari resteranno alti anche nei prossimi mesi. A questo punto che fare in stalla, e in una stalla da Parmigiano Reggiano?

Per prima cosa sottolineerei cosa non fare: abbassare la qualità della razione. È lo stesso imperativo che abbiamo noi come mangimisti, mantenendo inalterati i nostri mangimi per livelli energetici, proteici, contenuto in zuccheri, aminoacidi, eccetera, pur in un contesto di forti aumenti generalizzati. Del resto noi siamo mangimisti, ma anche allevatori, e quindi sappiamo bene che alimenti di qualità sono fondamentali per avere performance e fare reddito, anche in tempi di alti costi. Detto questo, i mangimi danno il meglio laddove sono accompagnati da una ottima base foraggera, per qualità e per quantità. Su questo si può fare molto per migliorare, soprattutto lavorando alla parte agronomica, ad esempio sulle modalità e i tempi di raccolta, per migliorare le frazioni fibrose, visto che spesso abbiamo foraggi ancora troppo ricchi di lignina e quindi poco digeribili. La grande differenza nei risultati – e lo dico da mangimista – non la fa il mangime (certo, purché sia prodotto da un mangimificio serio): la fa il foraggio che si produce in azienda. Ogni miglioramento qui ha un effetto leva su tutto il resto e, in tempi come questi di costi alimentari alti, è una strada obbligata da percorrere.

Chi ha un essiccatoio aziendale è avvantaggiato in tutto ciò…

Disporre di un essiccatoio aziendale è sicuramente un grande vantaggio, ma i costi di gestione di queste macchine sono pesanti, ancora di più ora con questi costi energetici. Certo, l’abbinamento al fotovoltaico potrebbe essere una soluzione, anche perché le temperature richieste per l’essiccazione dei foraggi non sono elevate. Serve un’evoluzione anche nell’offerta di macchine a minori oneri di gestione da parte dei produttori.

Produrre tanti foraggi, di alta qualità dunque. Questo ha un riflesso anche sulla quota proteica della razione?

Faccio un passo indietro. Parliamo di soia. Ancora prima che si avessero le criticità attuali la soia era un alimento con delle criticità. Pochi sono i Paesi al mondo che la producono, c’è il problema della deforestazione, il peso in termini ambientali di questa produzione e dei suoi lunghi trasporti. Per questo ho sempre creduto – e ora non posso che essere ancora più convinto di questo – che l’allevatore di vacche da latte abbia il dovere morale di prodursi non solo più foraggio possibile, ma anche avere da esso una quota parte importante delle sue necessità proteiche. Ad esempio rilanciando i medicai. Non è più possibile pensare di allevare vacche da latte ricorrendo al mercato esterno per tutta la quota proteica necessaria alla razione. Questo porta di conseguenza a un altro tema che diventerà sempre più importante: l’equilibrio della stalla con la terra disponibile. Anche qui ci sono delle criticità che la situazione attuale rischia di rendere insostenibili, con aziende con troppi capi rispetto alla terra disponibile e alla possibilità di produrre quote importanti di foraggi. Ridurre i capi può diventare una necessità, e non è detto che questo comporti una perdita di produzione. Vedo, in questa situazione, un’analogia con quanto successe con l’introduzione delle quote latte: anche allora la posizione più razionale era quella di avere le stesse produzioni riducendo i capi allevati. Oggi vedo una situazione simile nelle realtà con troppo squilibrio tra i capi e la terra.

Va detto però che un kg di sostanza secca ingerito in certe stalle rende di più, in altre di meno. Da dove partire per migliorare? 

Fare l’allevatore vuol dire anche analizzare i dati e partire da questi per capire quale è il proprio livello di efficienza tecnico-economica. Ci sono parametri, ad esempio l’IOFC, che devono diventare la bussola con cui ogni stalla si orienta nel suo cammino. Se penso all’allevamento suino o da carne, per i quali l’Indice di conversione alimentare è da sempre l’elemento continuamente monitorato, e li paragono all’allevamento da latte, noto che in quest’ultimo c’è ancora pochissima attenzione all’efficienza alimentare. Questo è un grosso errore. Sapere quanto latte o quanto formaggio fanno le mie bovine per un kg di sostanza secca ingerita è fondamentale, ancora di più in una situazione di costi alimentari così elevati. Analizzando questo dato per gruppi di stalle notiamo differenze grandissime tra aziende migliori e peggiori e questo è un dato che fa riflettere e indica una strada da percorrere per recuperare efficienza. Gestire al meglio la fase alimentare oggi significa anche analizzare i dati continuamente e da queste analisi farsi guidare nelle decisioni. Di dati in azienda ce ne sono tantissimi: dalla sale di mungitura, dai robot, dai carri unifeed: bisogna usarli.

Passiamo dalla stalla al mangimificio. Cosa significa produrre mangimi per Parmigiano Reggiano?


Veronesi è stato il primo mangimificio ad essere iscritto all’Albo dei fornitori di foraggi e mangimi per Parmigiano Reggiano. Questo perché crediamo nella qualità degli alimenti che entrano nel circuito delle Dop e di questa Dop. Del resto, come azienda siamo impegnati anche direttamente nella produzione di Dop prestigiose, ad esempio nel settore suinicolo. Sappiamo quindi il valore della qualità e della sicurezza. Per questo siamo rigorosi nel controllo e nella qualità delle materie prime utilizzate.

Su certi parametri analitici siamo addirittura più severi rispetto alla normativa. Faccio l’esempio delle aflatossine: la normativa richiede di non superare nel mangime per vacche da latte 5 ppb, mentre noi garantiamo la soglia di 3 ppb. Lo facciamo perché siamo convinti che alimenti che entrano in circuiti come quello del Parmigiano Reggiano debbano essere di assoluta sicurezza e garanzia per l’allevatore e per il consumatore. Abbiamo selezionato i nostri fornitori per aree di provenienza a maggiore o minore sensibilità alle aflatossine e i diversi tipi di mais seguono vie di stoccaggio e lavorazione distinte con destinazioni differenti: vacche da latte o monogastrici e bovini da carne. Quanto visto per le aflatossine vale anche per i metalli pesanti, nella logica di mettere a disposizione degli allevatori un mangime che sia ancora più sicuro di quanto chiede la normativa. Non solo guardando alla sicurezza, ma anche alla qualità finale del prodotto. È il caso dei grassi idrogenati e saponificati che non sono mai stati usati per mangimi destinati a stalle per Parmigiano Reggiano. Lo ripeto: siamo allevatori noi stessi e sappiamo cosa vuol dire essere sicuri di ciò che mangiano i nostri animali.

Se volessimo condensare tutto quanto detto in un consiglio finale?

Attenzione massima ai foraggi: farne il più possibile, con la massima qualità e con una quota proteica che alleggerisca l’approvvigionamento sul mercato. E controllare l’efficienza.

Anche per chi fa latte da Parmigiano Reggiano un kg di sostanza secca ingerita dalla bovine costa troppo perché non dia la massima quantità di formaggio possibile.

(*) I prezzi a cui si fa riferimento sono quelli riferiti alla data dell’intervista 29 aprile 2022 (NdR).

Roberto Zaupa, Direttore Ricerca e Sviluppo di Aia – Agricola Italiana Alimentare S.p.A.