Intervista a Fausto Toni, Responsabile Tecnico Ricerca e Sviluppo di Progeo.
Con i costi attuali di materie prime e foraggi, ogni kg di sostanza secca che entra nella bocca dell’animale è troppo prezioso per non essere trasformato in latte, grasso e proteine nella maggior parte possibile. Questo vale in particolare per la componente proteica, che nei costi della razione è quella che incide maggiormente ed è anche quella che, se non utilizzata al meglio, impatta pesantemente sul carico azotato delle deiezioni.
Un costo doppio, insomma: per la razione prima e per l’ambiente poi.
La via dell’efficienza è quindi obbligata. Di questo e altro ne parliamo con Fausto Toni, veterinario con una lunga carriera come buiatra libero professionista nelle stalle da Parmigiano Reggiano, poi passato a lavorare nell’industria farmaceutica e quindi nel settore mangimistico. Attualmente è Direttore Tecnico Ricerca e Sviluppo di Progeo.
Fausto Toni, partiamo dalla massima efficienza: un imperativo per ogni stalla…
Esatto, il discorso non può che partire da qui. Ogni kg di sostanza secca che viene portato alla bocca della bovina ha raggiunto costi tali da non potersi permettere più certi livelli di inefficienza nella sua trasformazione in un’azienda da latte. Dico da latte perché, a differenza di altri settori zootecnici come l’allevamento da carne, o la suinicoltura, o l’avicoltura, nell’allevamento da latte l’attenzione all’efficienza di trasformazione dell’alimento non è ancora così diffusa. Molto spesso ci si ferma al dato generico della produzione di latte, che tuttavia esprime solo in misura parziale quanto la mandria stia utilizzando al meglio quello che viene messo in mangiatoia. Quindi, va bene guardare al latte prodotto, ma bisogna andare oltre, focalizzandosi su altri parametri di efficienza.
Ad esempio?
Partiamo dall’efficienza alimentare, ossia dal rapporto tra latte prodotto e sostanza secca ingerita. Ogni allevatore deve sapere con certezza quanto gli rende ogni kg di sostanza secca della razione e valutare se quello che ottiene è ottimale o migliorabile. Al di là della composizione della razione, è spesso una questione gestionale, legata all’organizzazione della mandria, alla composizione dei gruppi, alla presenza o meno di gruppi specifici per primipare, o per le fresche, per fare un paio di esempi e come si può vedere dalla Tabella 1. Tuttavia, quando il dato scende sotto 1,3 si sta vistosamente sprecando sostanza secca.
C’è poi la questione proteine: sono la parte più costosa della razione e, paradossalmente, anche quella che in molti casi non è adeguatamente trasformata e quindi persa con le deiezioni.
Ci dice questo l’analisi del NUE, Nitrogen use efficiency, ossia l’indice che misura quanto efficiente è l’utilizzo dell’azoto da parte della bovina. Come si può vedere nella tabella 2 ci possono essere vari scenari: il migliore è quando il NUE è superiore a 35, ma in questo caso è bene verificare che non ci sia una situazione di carenza proteica in razione, che viene superata dalla bovina utilizzando le proprie proteine corporee. Lo scenario migliore è quello che va da 30 a 35, mentre con un NUE sotto il 25 si entra in una situazione dove è necessario intervenire e correggere la razione, perché siamo in presenza di una bassa efficienza di utilizzazione dell’azoto dato in razione. Concretamente, è evidente come non sia la stessa cosa se diamo 4 kg di proteine in razione a vacche con un NUE di 30 o con un NUE di 20. In termini di proteine contenute nel latte prodotto, perché significa averne il 10% in meno, e in termini ambientali, perché quella differenza sarà azoto da smaltire nelle deiezioni.
Lavorare sull’efficienza di trasformazione anche in un’ottica di riduzione del contenuto proteico della razione?
Sicuramente. Questo concetto viene inevitabilmente considerato con molta più attenzione in situazioni nelle quali i costi delle materie prime sono alti. In questa fase abbiamo la soia che ha toccato prezzi record. Quella che si usa va sfruttata al meglio. Sulla soia va in particolare fatto un discorso più approfondito. Al momento ritengo che sia poco realistico pensare di sostituirla con altre materie prime proteiche. Che non mancano, certo: girasole, pisello, glutine di grano sono materie prime che possono essere considerate a tale scopo, ma la soia resta sempre la scelta preferita, sia dal mangimista che dall’allevatore. Perché di fatto resta, anche coi prezzi attuali (parlo della soia convenzionale, non di quella biologica che ha raggiunto prezzi esorbitanti) la migliore fonte proteica al minor costo e quindi quella a cui il mangimista guarda di preferenza per i suoi mangimi. E questo anche perché l’allevatore, a parità di offerta, sceglie un prodotto che contiene soia, che è considerata come garanzia di maggiore qualità del prodotto.
Ora, sappiamo tutti che la soia è gravata da varie problematiche per la sua sotenibilità ambientale e “pesa” sul bilancio dell’azienda laddove si va a calcolarne l’impatto complessivo in termini di CO2. Però, realisticamente, credo che sia più praticabile la strada della sua riduzione in razione piuttosto che quella della sua sostituzione. Abbiamo visto che si può ridurre la componente proteica della razione – quindi anche la quantità di soia – lavorando sull’efficienza di utilizzo. Si può poi recuperare quota proteica migliorando la qualità dei foraggi e in particolare dell’erba medica. Tuttavia, anche su questo punto voglio essere realista, perché ogni miglioramento in tal senso richiede costi (ad esempio quelli per il funzionamento degli essiccatoi) importanti e non sostenibili da tutti. Questo concetto lo allargherei anche ai concentrati: la quota di energia per una bovina che fa tanto latte con razioni da Parmigiano Reggiano è un problema per il nutrizionista, che ha necessità di utilizzare quantità elevate di concentrati di qualità. Però laddove si lavori efficacemente per migliorare l’efficienza di trasformazione della sostanza secca, si lavora anche per una riduzione della quantità di concentrati in razione. E anche qui la qualità dei foraggi gioca un ruolo chiave: detto dei costi che fare foraggi di grande qualità richiede, è chiaro che più i foraggi sono di qualità elevata più energia riesco a dare alla vacche e meno impegnativa sarà l’integrazione necessaria con i concentrati.
Tra gli indici di efficienza l’IOFC, ossia il reddito che rimane detratti i costi alimentari, è uno di quelli con i quali la confidenza nelle stalle da latte sta crescendo. Ha un collegamento con gli indici di efficienza visti prima?
Sicuramente un collegamento c’è, perché la stalla dove si ha la massima efficienza di trasformazione della sostanza secca, così come si ha la trasformazione in proteine del latte della maggior quota di proteine date in razione, è anche quella dove l’alimentazione è più efficiente. Tuttavia questo è un indice che, se interessa molto l’allevatore, non è utilizzabile per comunicare con il consumatore.
Cosa si deve comunicare al consumatore? E in particolare quello di Parmigiano Reggiano?
Il consumatore vuole – tra le altre cose – stalle dove si faccia latte utilizzando meno risorse. Quindi il dato che si deve comunicare, perché è quello che gli interessa, è quello dell’efficienza con cui queste risorse sono utilizzate.
Per questo è importante conoscere questi dati in maniera precisa, perché permettono di raccontare la sostenibilità della stalla. E questo è un tema divenuto ormai centrale, che ha un peso crescente nelle scelte di acquisto. Lo è, in particolare, per le stalle da Parmigiano Reggiano. In questo comprensorio la soddisfacente redditività del latte negli consente maggiore sostenibilità economica con valori differenti di efficienza delle stalle che producono latte alimentare, mentre il tema della sostenibilità ambientale e dell’efficienza dell’utilizzo delle risorse presenta le stesse problematiche e talvolta maggiori visto che il parmigiano reggiano è ormai un prodotto di eccellenza riconosciuto in tutto il mondo.
Quindi quella che era una necessità meno urgente a livello economico (rispetto ad altre produzioni di latte) è diventata ora una vera urgenza per le richieste del consumatore, richieste che per un prodotto di eccellenza internazionale come il Parmigiano Reggiano sono ancora più vincolanti rispetto ad altri formaggi meno noti. La sostenibilità della produzione rappresenta un patrimonio che và sviluppato negli anni a venire, come chiaramente identificato dalle azioni del Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano, sia per la parte del benessere degli animali che per la parte relativa all’uso delle risorse per produrlo L’eccellenza serve anche nella produzione e servono dati esatti da comunicare che rassicurino il consumatore anche in termini di sostenibilità e gli diano ragioni per continuare a preferire questo formaggio.