Continuiamo la chiacchierata con Paolo Sassi, veterinario buiatra e allevatore. Tra i tanti spunti interessanti si è citato nella parte precedente l’utilità di uscire dagli schemi. Continuiamo su questo filone. E partiamo dalla produzione o, meglio, da una certa idea che sia la massima produzione sempre e comunque l’obiettivo.Non è detto che sia così, se non c’è una adeguato numero di lattazioni per ogni bovina nella stalla.
Paolo Sassi, per la zootecnica da latte la massima produzione è però da tempo la stella polare, il punto di riferimento di tante se non tutte le scelte operative. Questo è un dato che può quindi diventare fuorviante. Pensi di andare sempre meglio, di guadagnare di più, e invece non è così…
Esattamente. Puoi anche essere un’azienda dalle produzioni eccezionali, la prima nelle classifiche, ma questo non è automaticamente una garanzia di maggior guadagno rispetto all’azienda che produce una quantità inferiore di latte. Faccio il buiatra ormai da 27 anni, ho iniziato l’attività quando la connotazione media dell’azienda da Parmigiano Reggiano era di 35-40 capi. Gestione familiare, con stalle che non producevano più di 24-25 litri per capo di media. E c’erano già allora stalle molto più quotate, che tranquillamente arrivavano ai 30 litri. Tuttavia queste aziende medio-piccole con il loro tran tran, con le loro produzioni non eccezionali, con le loro gestioni “leggere”, riuscivano a guadagnare più di qualche azienda con lattazioni da record, che già allora stentavano a fare quadrare i conti. Spesso la produzione molto spinta comporta problematiche di alimentazione, che deve essere più attenta, mirata, tecnologica, cose non sempre facile da gestire per quantità, per regolarità, per omogeneità delle razioni. Questo si traduce in dismetabolie di vario genere, crescita delle problematiche riproduttive, necessità di ricorrere a farmaci e spesso porta a una riforma anticipata delle bovine. Non dico con questo che bisognerebbe tornare indietro, alla zootecnica di una volta, non avrebbe senso: semplicemente dovremmo cominciare a muoverci anche in altre direzioni rispetto a quella fin qui percorse.
Lattazioni da record quindi non vogliono dire sicurezza di reddito. Allargando il discorso: può valere, in qualche misura, anche per la dimensione della stalla?
Sì, si nota anche ora e sottolinea come la dimensione non sia l’unico elemento da considerare per ragionare sulla redditività di una stalla da latte. Quello che conta è la marginalità. Dobbiamo creare marginalità e, nel settore del Parmigiano Reggiano ma credo in tutto quello della zootecnia da latte, è necessario fare lo sforzo di mettere in discussione certi schemi, di uscire, di pensare e sperimentare soluzioni nuove. Altrimenti rimaniamo ingabbiati in protocolli che non si dimostrano più all’altezza della situazione attuale e, a fronte di continui investimenti richiesti, non sempre riescono ad assicurare la marginalità necessaria all’azienda, anche in ambito di Parmigiano Reggiano.
In estrema sintesi: meglio una maggiore longevità che lattazioni da record che durano solo due lattazioni.
Ritieni che siano troppo poche le lattazioni medie nelle stalle italiane per garantire redditività?
Direi proprio di sì. Se avessimo la possibilità di allungare la carriera produttiva delle bovine in stalla portandola a tre lattazioni di media (quindi aggiungendo poco meno di una lattazione rispetto alla media attuale), avremmo risolto gran parte dei nostri problemi. Questo ci permetterebbe di ridurre del 40% la quota di rimonta, che è un costo pesantissimo per le aziende ancora poco percepito. Un costo in termini di alimentazione, di spandimenti, di lavoro, di spazi e strutture necessarie.
Dove si deve lavorare maggiormente per questo obiettivo?
Parlando in linea generale – perché ci sono chiaramente stalle dove tutti i settori sono condotti alla perfezione – direi che il settore della vitellaia e della rimonta in generale è quello dove ancora si registrano deficit di attenzione e dove, a mio avviso, c’è da fare un lavoro di perfezionamento nelle strutture, nei protocolli, nelle attenzioni. Si tende a concentrarsi molto, anche negli investimenti, sulle vacche in produzione, senza fare molto per il settore della rimonta
E poi?
Si potrebbe fare di più anche sul versante genetico. Io sono un sostenitore del crossbreeding. Un crossbreeding, fatto con un approccio scientifico e non improvvisato, può aiutare ad avere animali resistenti, produttivi e con una maggiore capacità di durare in stalla. Questa attenzione alla longevità degli animali la si può ottenere lavorando anche con la razza pura, intendiamoci: l’importante è avere bene in mente che è l’obiettivo principale e fare scelte selettive sempre orientate a questo obiettivo e un po’ meno agli aspetti strettamente produttivi.
Tutto ciò conduce, inevitabilmente, anche a un allevamento più sostenibile…
La parola chiave per l’allevamento in generale, ma soprattutto per quello da Parmigiano Reggiano deve essere la sostenibilità. Però è diventata una parola che ormai tutti usano, e perché non perda significato va concretamente tradotta nella quotidianità operativa delle nostre stalle. Questo anche in un’ottica di rapporti con l’opinione pubblica: siamo sempre più nell’occhio del ciclone e si devono fare dei passi decisi per ridurre il sospetto con cui si è guardati dal consumatore finale, che di zootecnia sa pochissimo o nulla.
C’è bisogno di lavorare anche di immagine e di cultura per aumentare questa conoscenza del consumatore, partendo dalla realtà. Un po’ come si fa con l’iniziativa dei caseifici aperti, che riscuote un grandissimo successo perché dà la possibilità al consumatore di vedere realmente come nasce un formaggio e cosa c’è dietro quel pacchetto che compra al supermercato.
Iniziative così potrebbero servire a migliorare l’immagine e la percezione dell’allevamento da parte del consumatore, a patto però che ciò che gli si presenta sia in linea con le sue esigenze di sostenibilità, benessere animale, basso consumo di farmaci.
A tuo avviso, frequentando per lavoro tante stalle che fanno latte da Parmigiano Reggiano, c’è la percezione che produrre all’interno di questa filiera di eccellenza richieda degli obblighi in più rispetto a una “semplice” produzione di latte? Che si debba essere un po’ meglio degli altri perché il consumatore si aspetta di più da chi fa latte per un formaggio che è anche un brand internazionale?
Direi un po’ sì e un po’ no. Si sa che facciamo un prodotto eccezionale. Un po’ meno diffusa è la mentalità che anche il segmento dell’allevamento debba essere il “primo della classe” e in questa posizione si debba mantenere continuamente, aggiornando i propri protocolli produttivi alle richieste del consumatore e delle filiere. Dopotutto sono loro che decretano, col loro acquisto e con i prezzi che sono disposti a pagare, l’eccellenza del prodotto finale. La filiera del Parmigiano Reggiano è una filiera mediaticamente estremamente esposta e quindi tutto quello che può fare un danno ha un impatto molto superiore rispetto ad altre filiere. Sulla consapevolezza di questo c’è ancora da lavorare.
Altro punto dolente dell’allevamento moderno è la formazione del personale. Che ne pensi?
È un problema. Si fa, certo, però molte aziende, soprattutto quelle medie o grandi, su questi aspetti investono poco in tempo ed energie. Pochissime aziende si pongono adeguatamente il problema di formare il proprio personale. Il più delle volte cercano personale già formato o si basano su 4-5 concetti standard, ma poi non si fanno verifiche e viene tutto lasciato alla buona volontà del singolo.
Eppure, proprio perché ogni stalla è un mondo a sé anche personale che arrivi in azienda già formato va preparato, calato nella specifica realtà della nuova azienda. Non è detto che del personale già formato altrove possa rendere ugualmente bene anche in una realtà nuova, che ha caratteristiche magari molto diverse. Bisogna per questo fare sempre un resettaggio delle nozioni, calandole nella nuova realtà. Ma serve anche una verifica che poi queste nozioni vengano applicate realmente. Spesso non si fa, non c’è il tempo, non c’è la costanza.