Creare una filiera locale delle materie prime che entrano nelle razioni delle bovine è, per un prodotto come il Parmigiano Reggiano, una direzione di marcia strategica.
Consentirebbe infatti di aggiungere ulteriore valore al prodotto, colmando nel contempo una criticità non di poco conto: la dipendenza dalle importazioni internazionali di parte delle granaglie che entrano nella razione quotidiana delle bovine che fanno latte per Parmigiano Reggiano.
Le granaglie sono l’aspetto più critico, ma anche sui foraggi c’è da lavorare, per accrescere quantità e soprattutto qualità prodotta.
Questi temi sono stati dibattuti il 27 febbraio scorso nel convegno finale del GOI Feed PR, che ha come capofila il CRPA e a cui partecipa anche il Consorzio del Parmigiano Reggiano.
La sala gremita di partecipanti ha sottolineato l’interesse diffuso per questa tematica e l’importanza di capire se e come sia concretamente possibile rendere realtà l’aspirazione ad avere una filiera del Parmigiano Reggiano autosufficiente per la produzione di tutto ciò che entra nell’alimentazione delle bovine del suo comprensorio, non più tributario di materie prime di importazione.
Molte le prospettive analizzate nel convegno (al quale ha portato il suo saluto Patrizia Alberti delle Regione Emilia Romagna)che raccoglieva dati, osservazioni e proposte scaturite nei lavori del GOI Feed PR.
Marco Nocetti, Responsabile del Servizio di produzione primaria ha ricordato nei saluti iniziali, riprendendo poi il concetto nelle conclusioni a fine convegno, che per un formaggio come il Parmigiano Reggiano è più che mai necessario fare passi avanti in direzione di una produzione locale certificata delle materie prime per l’alimentazione delle bovine, per legare ancora di più il formaggio al suo territorio, cosa a cui il consumatore, in particolare quello di fascia più alta, è sempre più attento.
Certo, i costi di una tale filiera, come sono emersi dai lavori del GOI Feed PR, non sono cosa da poco e condurrebbero inevitabilmente a un aggravio del costo di produzione del latte prodotto. L’obiettivo è riuscire a far sì che questo aggravio possa essere recuperato e superato con la ulteriore valorizzazione del formaggio che ne conseguirà.
Maria Teresa Pacchioli, ricercatrice del CRPA, e Luigi Ranghetti di IBF Servizi, hanno riassunto i risultati del lavoro fatto per verificare se il territorio comprensoriale possa essere in grado di produrre tutto quanto il suo carico zootecnico richiede in termine di foraggi e di granaglie. La terra a disposizione sulla carta c’è, come certificato dai dati satellitari, dalle colture presenti e da ragionevoli dati produttivi ipotizzabili.
Per i foraggi, sulla carta, è possibile l’autosufficienza già a livello comprensoriale. Per le granaglie questa si raggiungerebbe considerando le potenzialità dell’intera regione Emilia Romagna.
Dal dato teorico a quello reale passano tutti gli aggiustamenti degli indirizzi agronomici, per essere meno orientati su mais e soia e più rivolti verso altre coltivazioni, come orzo, sorgo, pisello, favino, meno critiche per le caratteristiche di coltivazione, in primis quelle per l’irrigazione.
Andrea Formigoni dell’Università di Bologna nel suo intervento ha analizzato la questione dalla parte strettamente nutrizionale, collegando il successo di una possibile filiera locale per la produzione di materie prime a un miglioramento sostanziale della qualità dei foraggi, vero punto cruciale per il futuro di tutta la filiera del Parmigiano Reggiano.
Solo con foraggi di ottima qualità, che si configurano come veri e propri mangimi, è possibile ridurre le quantità dei concentrati, senza venire meno alle necessità nutrizionali di bovine sempre più produttive ed esigenti in mangiatoia.
Che la via del foraggio sia quella da percorrere non è solo per un dovere da Disciplinare, ma anche e soprattutto – ha ricordato il prof. Formigoni – perché una grande quantità di foraggio assunto dalla bovina è garanzia di benessere ruminale, sanità, longevità.
Fare gli ottimi foraggi che servono senza essiccatoi è però molto difficile, praticamente impossibile. E se è vero che c’è un aggravio nel costo di produzione dei fieni, questo costo viene ampiamente ripagato in termini di produzione di latte e di risparmio nelle quantità di mangimi acquistati. Investendo fino a 5 €/q.le di fieno in attrezzature e mezzi per migliorare la qualità dei fieni, infatti, con un prezzo del latte a 0,70 €/kg, si può avere un maggior ritorno in stalla di circa 2 €/capo/giorno.
Quanto al mais si può sostituire tranquillamente con il sorgo, sempre più compatibile con il clima del nostro territorio, purché si presti attenzione alla macinatura, con le particelle che non devono superare il millimetro.
Il prof. Formigoni ha anche ricordato come la corretta modulazione degli apporti in carboidrati fermentabili nel rumine consenta di ridurre i titoli proteici delle razioni senza deprimere la produzione e ciò consente di risparmiare proteici e ridurre l’escrezione ambientale di azoto.
Dal versante nutrizionale quindi – ferme restando le tante sottolineature fatte – una ipotesi di filiera certificata per produrre a livello regionale tutti i foraggi e le granelle necessarie regge. Ma come può essere organizzata e messa in moto, perché regga nel tempo, una tale filiera?
A questo ha lavorato, nell’ambito del GOI Feed PR Angelo Frascarelli, dell’Università di Perugia. Ha ricordato un passaggio chiave: perché una filiera del genere possa sostenersi nel tempo è necessario che tutti i suoi componenti possano trarne vantaggio.
Qualche opportunità può trovarsi nei contributi pubblici, siano essi della PAC o, a livello nazionale, quelli del nuovo Fondo per la Sovranità alimentare.
Ma – ha spiegato il prof. Frascarelli – il ragionamento va fatto sul lungo periodo e la prospettiva, considerando il maggior compenso per i produttori di granaglie che si legassero a questa filiera, è quella di un onere aggiuntivo per gli allevatori calcolato in 30 centesimi in più di costo razione, 1 centesimo in più di costo per litro di latte prodotto. Non poco, quindi.
Dove sta allora il vantaggio per l’allevatore?
È una questione di lungimiranza. Perché dalla possibilità di garantire una filiera certificata locale anche per le materie prime utilizzate nell’alimentazione delle bovine può derivare un ulteriore incremento di valore del prodotto finale.
Sullo sforzo per creare nuovo valore – ha concluso il prof. Frascarelli – non c’è Dop che possa dormire sugli allori, perché l’asticella si alza in continuazione e solo quelle filiere che sanno muoversi tempestivamente nell’aggiungere nuovi elementi valorizzanti al prodotto possono garantirsi nel tempo il mantenimento di un prezzo soddisfacente.
Certi vini, passati rapidamente dalle vette al baratro in termini di prezzi, dimostrano il rischio che si corre nel non aver saputo muoversi con lungimiranza.
L’introduzione di Marco Nocetti
L’intervento di Teresa Pacchioli e Luigi Ranghetti – Valutazione dei fabbisogni di materie prime e delle potenzialità produttive
L’intervento di Patrizia Alberti – Bandi per il settore agricolo in Emilia Romagna
L’intervento di Andrea Formigoni – Uso delle materie prime del territorio nel razionamento della vacca da latte
L’intervento di Angelo Frascarelli – La gestione contrattuale tra domanda e offerta di materie prime
Discussione finale e conclusioni di Marco Nocetti